Il litigio, il disaccordo, l’aggressione verbale sono parti inevitabili delle nostre giornate. Ma come si possono gestire al meglio? Cosa rende inefficace una comunicazione fino a farla degenerare in un litigio?
Un esempio luminoso ci viene dalla televisione. Nei cosiddetti “talk show”, si può vedere come persone riescono a discutere, fino alla violenza, per ore senza arrivare a nessuna conclusione. La gente viene attratta proprio dai toni forti e dalla zuffa. Se analizziamo con un pò di attenzione questo tipo di comunicazione, ci accorgeremo di alcuni meccanismi che alimentano l’inconcludenza. Uno dei più interessanti è il continuo appellarsi a quello che è “normale” o “giusto” o alla ricerca della “ragione“. Nessuno si rende conto che il termine “normale” significa semplicemente “conforme ad una norma”. Se quindi non si dichiara a quale modello si fa riferimento, e ci si illude che esista un’idea di normalità o di giustizia condivisa universalmente, una simile illusione diventa la struttura portante di un delirio.
Di fatto esiste una “normalità” diversa almeno per ogni nucleo familiare, per non dire per ogni singolo individuo. Quello che è normale o giusto per qualcuno non lo è magari per un altro. L’idea difficile da digerire è che esiste decisamente molta più soggettività che oggettività, e quindi una conversazione che da per scontato esistano dei valori assoluti parte con forti probabilità di naufragare. Per evitare questo basta invece dare per scontata una totale soggettività. Accettare la soggettività ha come conseguenza immediata il rispetto dell’altro partendo dal rispetto per se stessi. Se invece si ritiene ci debba essere qualcosa di superiore che tutti devono accettare, inizia la violenza, in qualsiasi forma.
Una valutazione importantissima, che va fatta sempre, è se ci troviamo in una vera discussione oppure se siamo solo sotto attacco. In una discussione il dialogo serve agli attori per cercare una soluzione. Un attacco invece non ha alcun altro scopo se non quello di svalutare l’altro. La difesa da un attacco invita a diverse strategie di protezione, fisica e psicologica. Che non tratteremo qui.
Ma se invece ci troviamo in una semplice discussione, valgono tutti i principi, già descritti, di una comunicazione efficace. Mandare a quel paese, in questo caso specifico, sancisce il fallimento della comunicazione, ma può anche essere visto come un attacco, cui potrebbe seguire una reazione dell’altro. Ignorare ha sostanzialmente lo stesso significato. Va fatto solo quando ci è chiara la nostra intenzione di interrompere il dialogo. Ignorare qualcuno è una provocazione, meglio ricordarlo.
Se la discussione è invece costruttiva, e c’è quindi l’interesse di entrambe le parti ad avvenire ad una soluzione, ci potrà essere un accordo oppure un compromesso. Mettendo l’attenzione a ciò che si guadagna lo si vedrà come un accordo. Mettendo invece l’attenzione a ciò che si perde si percepirà un compromesso.
Quando si dice all’altro cosa “deve” o “non deve” fare, in nome di qualcosa di più o meno superiore, si può essere ragionevolmente certi di una reazione negativa. Se poi l’altro, a sua volta, risponde cosa l’altro “deve” allora lo scontro è inevitabile.
Piuttosto che parlare dell’altro una buona idea è parlare sempre di se stessi. Tranquilli non è egoismo o narcisismo. Soprattutto parlando di cosa si prova o non si prova, delle proprie emozioni. Se io dico ”tu non devi dire questo” funziona molto peggio di “a me non piace quello che mi stai dicendo”. Posso dire “questo mi fa male” o “mi addolora”. Ma anche qui meglio fare attenzione. Dire “tu mi fai stare male” funziona come un accusa ed è diverso da “io sto male, ti prego di non farlo più”. Allo stesso modo possiamo chiedere a chi ci sta giudicando o a chi vuole per forza darci un consiglio, semplicemente, di non farlo.
Quando parlo di quello che provo questo sarà un argomento difficilmente sindacabile. Sto solo raccontando ciò che mi succede. Mentre è quasi doveroso replicare a qualcuno che vuole dirci cosa dobbiamo fare, sentire o dire. Quindi la regola aurea è questa: parlare sempre di se stessi e di cosa si prova e non degli altri.
In termini ancora più generali mettersi nella posizione di un genitore o al contrario di un bambino in una discussione può essere, in entrambi i casi, molto svantaggioso. Essere quindi quello che da le regole o quello che si ribella o ubbidisce crea delle inutili tensioni. La comunicazione più efficace è quella tra adulti che si scambiano delle informazioni alla pari. Questo è quello che si studia in analisi transazionale, un approccio psicologico che si occupa proprio della comunicazione come una serie appunto di transazioni tra i nostri stati interni dell’Io (Genitore, Adulto, Bambino) e quelli analoghi del nostro interlocutore.
Vi sarete accorti che il giudizio è quindi il principale nemico del dialogo. Ma non è possibile evitare di giudicare. Per farlo dovremmo partire dal non giudicare noi stessi. L’amore per noi stessi è una condizione apparentemente comune, ma in realtà di difficilissima realizzazione, e richiede tempo, cura e dedizione.
Il metodo, in tre mosse!
Questa la teoria, passiamo ora alla pratica. Per non litigare ed essere efficaci quando vogliamo dire la nostra senza creare tensioni, litigi e senza irritare il nostro interlocutore, possiamo suddividere la nostra comunicazione in tre fasi: Sento, Quando, Chiedo
- Sento: Diciamo semplicemente cosa proviamo: “Io provo rabbia, provo dolore, provo fastidio, etc.” Evitiamo di dire all’altro cosa è normale, cosa deve fare, di giudicarlo, di istruirlo o provare ad educarlo. Nulla che riguardi l’altro, diciamo solo quello che noi stessi proviamo. Si tratta di qualcosa di inattaccabile: nessuno può cambiare le proprie emozioni. Sarà giusto o sbagliato ma comunque è quello che sentiamo. E non si può gestire con la volontà.
- Quando: Continuiamo associando le nostre emozione ad un comportamento dell’altro. Io sento questo “quando tu fai, quando tu dici, quando succede, etc.”. Bisogna fare moltissima attenzione anche qui a non giudicare in alcun modo il comportamento dell’altro. Ma semplicemente a descrivere in maniera asettica quali circostanze provocano in noi quella condizione emotiva che abbiamo appena descritto. Magari, non sempre, l’altro non è consapevole degli effetti del proprio comportamento.
- Chiedo: è il momento di fare una richiesta precisa, che possa evitare la causa (il comportamento, la situazione, etc.) e l’effetto (la propria sensazione o emozione sgradevole). Può essere semplicemente un “Ti prego di non farlo più” o essere più preciso ed articolato. La cosa assolutamente importante è che sia una richiesta specifica, dettagliata, realistica, meglio ancora se con una tempistica. Insomma sono bandite le “finte richieste” quelle quindi infinite ed indefinite.
Potremmo continuare aggiungendo cosa succede se la propria richiesta non viene soddisfatta. Ma non è indispensabile. Da quel momento in poi l’altro non può ignorare il fatto che insistendo nella sua azione ci saranno delle conseguenze. Ed è quasi più efficace che immagini lui il peggio, piuttosto che ricevere spiegazioni in merito. Provare per credere!
Questo è tutto. Per chiarimenti sono come sempre a vostra disposizione, utilizzando il modulo di contatto!