Normalità, questa sconosciuta

 

Una parola che spesso viene ascoltata in terapia è “normalità”. Si viene dallo psicologo per rientrare nella normalità, per tornare ad essere “normali”. Sembra anche che esista  un’idea condivisa da tutti su cosa sia normale. Che per definizione è la congruenza ad una “norma”, ad un modello specifico, qualunque esso sia. Quindi non è qualcosa di oggettivo, ma soggettivo, relativo sia pure ad un gruppo, un credo, un luogo o altro. Quello che è per esempio “normale” in una famiglia, non lo è magari in quella dei loro vicini.

Malgrado questa evidenza, resiste l’idea che possa essere un valore assoluto e condiviso. E questo ha dei vantaggi, perché grazie alla normalità si diluiscono le differenze, e quindi si evitano i conflitti, salvo quelli sul cosa sia appunto “normale”. La “normalità” viene propagata, non senza sforzo,  per unificare e conformare.

Ma pensiamo mai a cosa si ritiene “normale” in un paese occidentale?

E’ normale provare a guadagnare quanti più soldi è possibile, a prescindere dalle esigenze personali, immaginando che ne consegua in ogni caso una maggiore felicità. Fare le proprie scelte lavorative nel modo più razionale possibile, mettendo spesso in secondo piano i propri sogni e le proprie inclinazioni. Conoscere molto poco i propri bisogni, cercando piuttosto di non deludere le aspettative altrui. Avere degli obiettivi generici, invece che specifici. Ricercare più successo, più affermazione sociale, volere in generale sempre di più evitando di accontentarsi, in qualsiasi cosa. Superare i propri limiti, senza esplorarli e senza rispettarli. Non arrendersi mai, nemmeno quando è in pericolo la nostra integrità fisica e psicologica. Non chiedere aiuto, perché bisogna farcela da soli. Ma evitare di essere egoisti, immaginando che vivere in funzione di cosa gli altri fanno, pensano o sono sia altruismo. Credere che il sacrificio sia un modo per aiutare qualcuno. Considerare l’eroismo come valore solo positivo. Razionalizzare tutto, se possibile anche i sentimenti. Evitare di provare emozioni, soprattutto quelle di segno negativo, come la paura, il dolore, la tristezza. Essere sempre più efficienti, più produttivi, riducendo il proprio tempo libero. Inseguire la perfezione e sentirsi inadeguati in caso di fallimento. Essere vincenti ed identificarsi in tutto quanto è vincente, anche se non ci appartiene. Dare credito a chi si fa vittima, e ricercare un colpevole quando avviene qualcosa di sgradevole. Alimentare il proprio potere, la forza, ostentare sicurezza. Giudicare con violenza gli altri, e giudicare intimamente se stessi con ferocia.

Bene quanto descritto non è molto lontano dal comune concetto di “normalità”. Ma può verificarsi un divertente paradosso. Costruendo il proprio benessere ci si può accorgere infine che non coincide propriamente con l’adeguarsi alla  “normalità”. E che, per assurdo, la stessa idea di normalità ci imprigiona, facendoci chiedere dove e come l’abbiamo accettata come un dogma. Essere normali non coincide con lo stare bene. Così come non ci fa stare bene essere i ribelli, “contro” ogni normalità. Per stare bene possiamo chiederci cosa davvero è bene per noi. Cosa non è inferno nella nostra vita. E farlo durare, dargli spazio.